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Partiamo dal presupposto, direi assodato, che abbiamo superato lo stigma del gioco, cioè: giocare non è una cosa solo da bambini.
Lo dico perché effettivamente questo pregiudizio nei confronti del gioco e del giocare era presente da diverso tempo, dovuto al fatto che l’atto del giocare veniva associato al giocattolo e quindi alla sfera dell’infanzia, per cui era una cosa esclusiva dei bambini - o dei malati del gioco (ludopatici) -, gli adulti dovevano abbandonare il gioco per occuparsi di cose più serie.
[Per non confondere il lettore, ci tengo a precisare che col termine giocare intendo gli atti ludici non sportivi, visto che per gli sport vale un discorso diverso data la loro origine religiosa in molte culture, come le olimpiadi greche o il gioco del pallone azteco].
Eppure, il gioco è sempre stato uno strumento della società per auto-rappresentarsi e comprendere i propri equilibri di potere: per esempio gli scacchi rappresentano la società militare, i tarocchi la società medievale e il monopoli la società capitalistica.
Ma fino a non molti anni fa non esistevano fiere per i giochi, premiazioni per il miglior game designer, tornei nazionali di giochi da tavolo e tanto meno una materia di studio, come gli attuali Game Studies, su quest’argomento.
Questa spinta, che alcuni studiosi chiamano gamification o ludicizzazione della cultura, avviene da parecchio tempo in realtà, ma ha raggiunto l’apice sicuramente durante il lockdown, dove molte famiglie per passare il tempo hanno tirato fuori e comprato giochi da tavolo e, giocando con i propri figli, molti genitori si sono riscoperti degli appassionati, anche se non erano più bambini.
Questa spinta non è solo promotrice del gioco come oggetto che entra nelle case di grandi e piccini, ma è una spinta che porta l’atteggiamento ludico in molti settori che non sono avvezzi al gioco: come nell’ambito lavorativo, usandolo come strumento formativo e per far emergere le abilità parallele dei lavoratori.
Coseva, rispetto alla media delle aziende italiane, ha iniziato con un leggero anticipo questa tendenza di portare il “giocare” all’interno dei luoghi di lavoro e servendosene in maniera precisa durante gli incontri di “Insieme. Per crescere”.
Per capire che il gioco è uno strumento anche molto delicato da usare, bisogna sfatare la falsa convinzione che qualsiasi gioco crea un clima sereno e divertente tra i giocatori: per esperienza personale ho vissuto parecchie litigate (e rosicate) giocando a giochi competitivi come Risiko e Munchkin, ma basta anche solo pensare alle litigate che si fanno a briscola alcuni pensionati. È vero che un po’ di sana competizione fa bene, ma se l’obiettivo è creare un clima sereno per far uscire le problematiche del proprio lavoro, forse scaldare gli animi con un gioco in cui bisogna “schiacciare” l’avversario potrebbe non essere utile.
Infatti, questo non è il tipo di gioco che propone Coseva durante gli incontri di “Insieme. Per crescere”, che utilizza lo strumento del Gioco Cooperativo: ovvero, una tipologia di gioco in cui i giocatori non competono tra di loro (ne a squadre ne singolarmente) ma uniscono le forze per battere “il gioco” stesso (come un solitario in cui tutti partecipano). Questa tipologia è molto utile per almeno 3 aspetti:
1. Discussione - nel gioco cooperativo le decisioni si prendono in comune, questo obbliga i giocatori a discutere sulle scelte da prendere, facendo emergere dinamiche di potere, creazione di ruoli sociali e di un metodo decisionale. Tutti elementi che possono essere ripresi per far emergere problematiche di squadra.
2. Valore assoluto - i valori che si ottengono non vengono confrontati (durante la partita) con nessuna squadra concorrente, quello che si vuole ottenere non è “fare meglio dell’altro” ma raggiungere il “migliore possibile” in termini idealistici (che attraverso la discussione si scopre un valore soggettivo al contrario di quanto uno possa credere) permettendo così di giocare in maniera più serena e produttiva..
3. Coinvolgimento - a differenza del gioco di squadra competitivo, nei cooperativi tutti devono partecipare altrimenti la squadra rischia di perdere, riequilibrando anche gli animi dei giocatori. Per esempio i giocatori più timidi, che spesso nei giochi di squadra stanno in disparte, sono obbligati a ritagliarsi il loro momento di attività, e i giocatori più eccentrici devo lasciare spazio anche agli altri per poter vincere, permettendo di far emergere idee e persone che nel quotidiano rimangono in disparte a causa del carattere.
Tutto questo all’interno del “cerchio magico” ovvero una sorta di protezione che il gioco crea, tra il mondo reale e la situazione del gioco, che permette ai partecipanti di poter sbagliare senza problemi.
Ultima riflessione che vorrei portare al lettore, uscendo fuori dal tema dell’Insieme. Per crescere, è il fatto che questa tipologia di giochi cooperativi non è solo una tendenza di Coseva, ma è un genere che sta prendendo sempre più piede all’interno all’interno del mercato dei giochi da tavolo: molti compagnie di amici e famiglie preferiscono giocare ad un gioco cooperativo piuttosto che ad un gioco competitivo, forse la società in cui viviamo sta cambiando e per cui anche la sua rappresentazioni nei giochi?